Traducendo s'impara
Madonna dir vo voglio, di Giacomo da Lentini, la "prima" poesia della Scuola Poetica Siciliana
7 dicembre 2008
da c1 a c2
Roberto Tartaglione
No
L'argomento "Federico II" ci piace molto: per le caratteristiche del personaggio, certamente, ma anche perché Federico II è alla base della nascita della lingua italiana. La poesia nella Toscana del Duecento e del Trecento e lo stesso Dante, hanno infatti alle spalle la tradizione della Scuola Poetica Siciliana e perciò un grosso debito verso l'iniziativa poetica e linguistica dell'imperatore svevo. Abbiamo pubblicato allora su Matdid parecchi materiali in proposito: storici, artistici e linguistici. Qui sotto i link per quelli che vi sembreranno più interessanti.
I tedeschi in Sicilia (XII secolo)
Quando Heinz diventa Enzo (il leggendario figlio di Federico II)
Pir meu cori alligrari (poesia in versione siciliana di Stefano Protonotaro)
Le donne di Federico II (l'Imperatore sciupafemmine)
De arte venandi cum avibus (il trattato di falconeria di Federico II)
Un castello tira l'altro (architettura e arti figurative federiciane)
Un'intervista impossibile (Camilleri intervista Federico II)
Giacomo da Lentini, notaio della corte di Federico II, è considerato l'iniziatore della Scuola Poetica Siciliana per almeno due motivi: il primo è legato al fatto è che sua è la lirica con cui si apre il Canzoniere Vaticano Latino 3793 in cui sono raccolte gran parte delle poesie siciliane. Il secondo motivo dipende invece dal fatto che la sua composizione, Madonna dir vo voglio, è la traduzione di una canzone provenzale del trovatore Folchetto da Marsiglia.
Viene perciò da pensare che, nella fase di "creazione" della Scuola si sia provato, prima di tutto, a rendere in "siciliano illustre" i concetti e le forme della poesia più diffusa in quel momento, quella provenzale appunto.
Diamo un'occhiata solo alla prima strofa per vedere le caratteristiche della traduzione.
TESTO DI FOLCHETTO DA MARSIGLIA
A vos, midontç, voill retrair’en cantan
cosi·m destreign Amor[s] e men’a fre
vas l’arguogll gran, e no m’aguda re,
qe·m mostras on plu merce vos deman;
mas tan mi son li consir e l’afan
e viu qant muer per amar finamen.
Donc mor e viu? non, mas mos cors cocios
mor e reviu de cosir amoros
a vos, dompna, c[e] am tan coralmen;
sufretç ab gioi sa vid’al mort cuisen,
per qe mal vi la gran beutat de vos.
TESTO DI GIACOMO DA LENTINI
Madonna, dir vo voglio
como l’amor m’à priso,
inver’ lo grande orgoglio
che voi, bella, mostrate, e no m’aita.
Oi lasso, lo meo core,
che ’n tante pene è miso
che vive quando more
per bene amare, e teneselo a vita.
Dunque mor’u viv’eo?
No, ma lo core meo
more più spesso e forte
che non faria di morte naturale,
per voi, donna, cui ama,
più che se stesso brama,
e voi pur lo sdegnate:
Amor, vostra ’mistate vidi male.
QUALCHE NOTARELLA SULLA LINGUA
inver - di contro
orgoglio - parola di origine germanica nata per indicare il sentimento proprio del guerriero. L'esercito romano, già dal V secolo, è quasi interamente germanico e certe parole si diffondono quindi rapidamente: in particolare werra > guerra; wardare > spiare > guardare.
rima priso/miso - come quasi tutte le poesie siciliane, anche questa ci è arrivata in una versione ormai linguisticamente "toscaneggiata". Sicuramente siciliana è però la rima priso/miso che in toscano avrebbe dovuto dare la forma preso/messo.
mor'u, viv'eo - ancora tipicamente siciliana quella "u" (o) che in toscano sarebbe diventata "o". L'uso della "u" siciliana rimane in poesia fino all'Ottocento: Alessandro Manzoni, nella sua poesia Cinque Maggio dedicata alla morte di Napoleone, scrive un arcaico e assai poco "normale" nui chiniam la fronte.
pur - anche, tuttavia, continuamente