Pir meu cori alligrari, di Stefano Protonotaro
Una poesia che ci è arrivata in versione siciliana e non toscanizzata
7 dicembre 2008
da c1 a c2
Roberto Tartaglione
No
L'argomento "Federico II" ci piace molto: per le caratteristiche del personaggio, certamente, ma anche perché Federico II è alla base della nascita della lingua italiana. La poesia nella Toscana del Duecento e del Trecento e lo stesso Dante, hanno infatti alle spalle la tradizione della Scuola Poetica Siciliana e perciò un grosso debito verso l'iniziativa poetica e linguistica dell'imperatore svevo. Abbiamo pubblicato allora su Matdid parecchi materiali in proposito: storici, artistici e linguistici. Qui sotto i link per quelli che vi sembreranno più interessanti.
I tedeschi in Sicilia (XII secolo)
Traducendo s'impara (la "prima" poesia di Jacopo da Lentini)
Quando Heinz diventa Enzo (il leggendario figlio di Federico II)
Le donne di Federico II (l'Imperatore sciupafemmine)
De arte venandi cum avibus (il trattato di falconeria di Federico II)
Un castello tira l'altro (architettura e arti figurative federiciane)
Un'intervista impossibile (Camilleri intervista Federico II)
Mentre quasi tutte le poesie siciliane ci sono arrivate attraverso codici toscani (il Codice Palatino 418, pisano; il Codice Laurenziano Rediano 9, di Lucca; il Codice Vaticano Latino 3793, di Firenze) nei quali la lingua dei poeti è stata, appunto, "toscanizzata", questa canzone di Stefano Protonotaro ci è arrivata attraverso le "Carte Barbieri", dal nome di un filologo del Cinquecento che deve aver copiato i testi da un codice siciliano andato poi perduto.
Non pretendiamo che i nostri lettori di MatDid si appassionino a un testo di questo tipo! Del resto pochissimi italiani avranno voglia di leggerlo. Ma a noi piace tantissimo, sia per il suo modo di parlare d'amore (cervellotico, intellettualistico e autoreferenziale) sia perché queste origini siciliane e non toscane della lingua italiana ci esaltano, e non poco! E chissà che queste caratteristiche della lingua antica non siano di qualche aiuto anche agli studenti di italiano moderno...
Dell'autore non sappiamo molto: qualcuno pensa che si tratti di un certo Stefano da Messina che aveva tradotto dei trattati di astronomia arabi dal greco in latino dedicando la sua opera a Manfredi, figlio di Federico II. Ma questo fatto è tutto da dimostrare.
Ed ecco qui il "famoso" testo:
I Stanza
Pir meu cori allegrari,
chi multu longiamenti
senza alligranza e joi d'amuri è statu,
mi ritornu in cantari,
ca forsi levimenti
da dimuranza turniria in usatu
di lu troppu taciri;
e quandu l'omu à rasuni di diri,
ben di' cantari e mustrari alligranza,
ca senza dimustranza
joi siria sempri di pocu valuri;
dunca ben di' cantari onni amaduri.
II Stanza
E si per ben amari
cantau juiusamenti
homo chi avissi in alcun tempu amatu,
ben lu diviria fari
plui dilittusamenti
eu, chi su di tal donna inamuratu,
dundi è dulci placiri,
preiu e valenza e juiusu pariri
e di billizi cuta[n]t' abondanza,
chi illu m'è pir simblanza
quandu eu la guardu, sintir la dulzuri
chi fa la tigra in illu miraturi;
III Stanza
chi si vidi livari
multu crudilimenti
sua nuritura, chi illa à nutricatu,
e si bonu li pari
mirarsi dulcimenti
dintru unu speclu chi li esti amustratu,
chi l'ublia siguiri.
Cusì m'è dulci mia donna vidiri:
chi 'n lei guardandu met[t]u in ublianza
tutta'altra mia intindanza,
sì chi instanti mi feri sou amuri
d'un culpu chi inavanza tutisuri.
IV Stanza
Di chi eu putia sanar;
multu legeramenti,
sulu chi fussi a la mia donna a gratu
meu sirviri e pinari;
m'eu duitu fortimenti
chi quandu si rimembra di sou statu
nu lli dia displaciri.
Ma si quistu putissi adiviniri,
ch'Amori la ferissi de la lanza
chi mi fer' e mi lanza,
ben crederia guarir de mei doluri,
ca sintiramu equalimenti arduri.
V Stanza
Purriami laudari
d'Amori bonamenti,
com'omu da lui beni ammiritatu;
ma beni è da blasmari
Amur virasementi,
quandu illu dà favur da l'unu latu,
e l'autru fa languiri
chi si l'amanti nun sa suffiriri,
disia d'amari e perdi sua speranza.
Ma eu suf[f]ru in usanza,
chi ò vistu adessa bon sufrituri
vinciri prova et aquistari hunuri.
Congedo/sirma finale
E si pir suffiriri,
ni per amar lialmenti e timiri,
homo aquistau d'Amur gran beninanza,
digu avir confurtanza
eu, chi amu e timu e servi[i] a tutt'uri
cilatamenti plu chi altru amaduri.
Linguisticamente nella canzone troviamo un gran numero di francesismi e provenzalismi. L'influenza dei trovatori e dei trovieri su tutta la poesia dell'epoca, del resto, è cosa nota: va detto comunque che mentre i provenzalismi sono di derivazione colta, il francese era lingua parlata alla corte normanna di Federico II.
Sono generalmente francesismi, per esempio, tutte le parole che terminano in -anza (alligranza, dimuranza, dimustranza ecc.) e in -aggio. Ma mentre il suffisso -aggio è sicuramente francese (dal latino -aticum, viaticum > viaggio, omaticum > omaggio), per quanto riguarda i suffissi -anza e -enza c'è anche la possibilità di una diretta derivazione latina (sperantia > speranza).
I provenzalismi fanno invece parte anche della lingua di Dante giovane. Li abbandonerà solo in età matura.
Metricamente la canzone siciliana si richiama certo alla struttura della poesia provenzale, ma poi la ampia, e la perfeziona su una via del tutto nuova e originale.
I versi accettati sistematicamente dai siciliani saranno il settenario (verso con ultimo accento sulla sesta sillaba) e l'endecasillabo (verso con ultimo accento sulla decima sillaba). E Dante, nel De Vulgari Eloquentia, riconoscerà solo a questi due versi il ruolo di versi cardine di tutta la poesia italiana. E tali rimarranno in tutta la nostra storia letteraria praticamente fino a Carducci, nell'Ottocento.
La canzone di Stefano Protonotaro ha 5 stanze e un congedo: ogni stanza è divisa in fronte e sirma e i versi sono tutti endecasillabi o settenari: le rime seguono lo schema
abc-abc // dd-ee-ff.
Le stanze sono unissonas, ovvero le rime si ripetono uguali in ogni stanza.
Proprio dal punto di vista metrico i siciliani non sono stati stanchi imitatori dei provenzali ma originali creatori di nuove strutture. Inventano infatti il sonetto (componimento in 14 versi, due quartine e due terzine), forma poetica che avrà una diffusione mondiale, grazie anche alla sua brevità che lo rende particolarmente adatto a esprimere un motivo. Nella letteratura italiana, ancora nell'Ottocento, Ugo Foscolo farà largo uso di sonetti per affrontare temi come l'esilio, la patria, la madre, la morte.
Musicalmente non abbiamo prove che le poesie siciliane fossero musicate. C'è anzi chi ritiene, e non senza ragione, che proprio per volontà dell'Imperatore i versi siciliani dovessero abbandonare il carattere gioioso e di intrattenimento festaiolo che avevano invece le poesie francesi, provenzali o tedesche, proprio per caratterizzarsi come forma poetica di alto livello intellettuale. E tuttavia i poeti federiciani, e Stefano Protonotaro in questa canzone, si dilettano a fare schemi ritmici e a infrangerli continuamente, con un gusto che certamente è musicale: il Protonotaro nei suoi versi crea continuamente antitesi tra metro e sintassi, lega sintatticamente i versi estremi di fronte e sirma e addirittura una stanza con l'altra.
Dal punto di vista musicale l'effetto è notevolissimo: la seconda stanza di questa canzone, per esempio, è costituita tutta da un unico periodo che inoltre si protrae nella stanza seguente.
Lessicalmente vale la pena notare:
- fare: spesso usato come verbo "vicario" per rendere più astratti i concetti (fare accordanza per accordare ecc.)
- placiri: è usato in modo leggermente diverso dal nostro piacere, essendo più associato all'idea della bellezza; è il piacere di Paolo che farà innamorare Francesca, e questo spiega perché in italiano piacere è un verbo il cui soggetto non è l'amante ma l'amato.
- pregio: termine largamente impiegato nella lirica provenzale, deriva dal latino pretium, che dà in italiano il doppio esito pregio e prezzo (così come radium dà il doppio esito raggio e razzo); il significato antico di pregio è relativo al valore morale e intellettuale, e anche a quello della considerazione sociale.
- dolciore: in italiano moderno diremmo certamente dolcezza e quella terminazione in
-ore fa sicuramente pensare a un provenzalismo. È certamente vero che il suffisso
-ore, -tore esiste comunque in italiano e indica l'agente (scrittore = che scrive; oratore = che parla), ma è altrettanto vero che in italiano non è un suffisso valido per rendere sostantivi di carattere astratto. Del resto nella poesia siciliana si parla di la dolciore, sostantivo femminile, proprio come in francese.
- illu: certo significa lui, ma il senso più profondo è difficilmente traducibile. Esiste in toscano moderno (la mi dica) e ne abbiamo diversi esempi nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. In pratica è un soggetto indeterminato impersonale.
- miraturi: nella lirica siciliana la parola specchio è resa dai due termini speglio (francesismo) e miratore (provenzalismo). Dante Alighieri userà tutte le forme: speculo, speglio e miraturi.
Anche Stefano Protonotaro usa miraturi nella seconda stanza e speclu nella terza. Miraturi è la stessa parola che poi darà mirror in inglese.
- pariri, li pari: il verbo parere, come del resto oggi in tutti i dialetti italiani, era estremamente più diffuso del verbo sembrare. Lo stesso Dante Alighieri nella Divina Commedia lo usa solo un paio di volte, come "parola dotta" e per esigenze di rima.
Sembrare probabilmente ci arriva dal provenzale semblare. Stranamente non ha subito la normale evoluzione delle parole con nesso -bl- (del resto diciamo sembiante e non sembrante o semblante). Questa evoluzione di -bl- in -br- fa pensare proprio a un provenzalismo introdotto dai siciliani.
- tutisuri: sempre, o meglio "a tutte le ore"
- metto in oblio: solita particolarità dell'italiano antico di sostituire un verbo (obliare) con un ausiliare accompagnato da un sostantivo deverbale: l'effetto è sempre quello di rendere più astratto il discorso.
- putria, vurria, avria e forme del condizionale: si tratta di forme che resistono nella letteratura fino all'Ottocento, fino a Leopardi e a Carducci che le usavano su imitazione di Dante e Petrarca, che a loro volta le avevano prese dai siciliani. Del resto la differenziazione dei condizionali e dei futuri rispetto al latino classico è presente in tutte le lingue romanze, segno che si era già prodotta a livello di latino volgare (non dopo il X secolo, quindi).
Già nel III secolo sono attestati futuri del tipo cantare habeo, che è la base del nostro cantare ho> canterò.
I motivi di una così diffusa preferenza sono probabilmente da ricercare nella tendenza a preferire parole fisicamente più consistenti (fra os e bucca abbiamo preferito bucca); parole più "forti" (fra aures e oricla abbiamo scelto la seconda per arrivare alla parola orecchio); e magari con un uffisso alterativo che le rende più corpose (genu > genocolum > ginocchio).
Graficamente poi bisogna pure porsi qualche domanda, perché certo non è facile rappresentare per iscritto una lingua nuova o comunque fino a quel momento solo parlata. Abituati a scrivere in latino, i funzionari della corte federiciana inevitabilmente latinizzano le parole del volgare. Nello stesso testo possiamo trovare per esempio la stessa parola ripetuta due volte, una volta scritta mostrai (scritto che corrisponde alla pronuncia) e un'altra volta scritta monstrai (scritto che corrisponde alla scrittura latina). Lo stesso Francesco Petrarca, un po' di anni dopo, scriveva facto quando certamente pronunciava fatto.
Molti spunti sulla fonetica dell'epoca ci vengono dallo studio delle rime nelle poesie: se rapto è in rima con facto è probabile che si pronunciasse ratto e fatto; se scripto rima con ficto è probabile che si pronunciasse già scritto e fitto; se sanza e lanza rimano con costantia e prudentia è ragionevole credere che si pronunciasse senza, lanza, costanza e prudenza.
E poi l'amore, l'unico argomento tollerato per la poesia della corte federiciana. Mentre per i poeti toscani stilnovisti l'amore, per essere perfetto, deve essere ricambiato, per i siciliani non è così. I siciliani sono dell'idea che se un amante non ricambiato non sopporta la sua situazione perde la speranza, mentre solo chi sa sopportarla acquista la gloria. Da qui le contorsioni letterarie di questa lirica disceptante che probabilmente non risponde troppo alla normale sensibilità moderna, ma che pure nella concezione che chi ama è più fortunato di chi è amato non ci è neanche del tutto estranea.