Pasolini e la pittura
Modelli pittorici nel cinema di Pasolini
30 settembre 2001
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Giulia Grassi
No
Pasolini amava molto la pittura.
Aveva imparato ad amarla all'Università di Bologna, frequentando le lezioni di storia dell'arte del grande critico Roberto Longhi, che gli aveva trasmesso la passione per Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, Caravaggio. Non a caso in un episodio del film Decameron (1971), che ha per protagonista Giotto, Pasolini ha interpretato proprio il ruolo del grande pittore trecentesco.
Nei suoi film è sempre possibile riconoscere l'influenza di grandi pittori, cosicché lui stesso è considerato uno dei maggiori "pittori" del cinema italiano: infatti costruisce le inquadrature come scene dipinte, con riferimenti precisi alla grande tradizione figurativa.
Bisogna sottolineare che Pasolini non è interessato alla semplice citazione estetica. Per lui l'immagine pittorica dà la sintesi, visiva, di situazioni di grande complessità sentimentale o intellettuale. L'immagine pittorica esprime in modo chiaro, semplice ed efficace contenuti molto complessi, e li rende comprensibili a tutti. Non solo: la pittura del passato ha lo scopo di mettere in evidenza il presente, di renderlo più "vero".
Per esempio, nel finale drammatico di Mamma Roma (1962) Pasolini cita un bellissimo quadro di Andrea Mantegna, il Cristo morto (1485): è chiaro che in questo modo, ancora una volta, vuole sottolineare il proprio amore per gli emarginati, per il sottoproletariato, per i "diversi" ai quali si sente vicino.
Quando a Pasolini chiedevano di indicare i modelli che avevano influenzato il suo linguaggio cinematografico, indicava sempre i modelli pittorici. Il fatto che nei suoi film l'inquadratura era immaginata come un quadro chiarisce la preferenza di Pasolini per la fissità del campo. Lui stesso lo spiega nelle note di regia per Mamma Roma: "come se io in un quadro - dove, appunto, le figure non possono essere che ferme - girassi lo sguardo per vedere meglio i particolari". Quindi la pittura era anche un mezzo per riflettere sul suo modo di fare cinema, sul proprio linguaggio filmico.
In alcuni film Pasolini ricorre ai tableaux vivants - cioè a vere e proprie "messe in scena" di opere pittoriche - perfettamente inseriti nella trama dei film anche se dotati di una propria singolarità. Ad esempio ne La Ricotta, un episodio del film Rogopag (1963) di Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti.
È la storia tragicomica di Stracci, un poveraccio che vive in una borgata romana e che è chiamato a interpretare il ruolo del buon ladrone in un film spettacolare dedicato alla Passione di Cristo (Pasolini fece interpretare il ruolo del regista del film a Orson Welles). Pasolini-Welles ricostruisce, in due sequenze gemelle, le repliche viventi di due opere di due grandi manieristi toscani: la Deposizione di Cristo di Rosso Fiorentino (1521) e la Deposizione del Pontormo (1526-1528).
Il modo di filmare e utilizzare le immagini è interessante. Inizialmente la visione del tableau vivant è totale, a tutto campo; successivamente, esso viene scomposto e le figure riprese in piani e particolari "montati" in modo sempre più rapido.
Inoltre i tableaux vivants sono a colori mentre il resto del film è in bianco e nero: è un modo per "isolare" le citazioni pittoriche, che tuttavia sono sentite come "necessarie" a sottolineare il senso tragico ma anche grottesco della vicenda narrata.
Dalla pittura, perciò, Pasolini ha cercato di imparare la tecnica per fissare nel film le forme del reale: non a caso considerava il cinema "lingua scritta della realtà". Quella realtà che pochi, come lui, hanno saputo capire e raccontare, anche a costo di dare "scandalo".