Un pulcino mai nato
Michele Serra fa la parodia di Oriana Fallaci
Sì
Nel 1991 Michele Serra ha pubblicato il libro "44 Falsi" (prima edizione nella "Universale Economica" Feltrinelli, Milano). Si tratta di 44 brani scritti "con lo stile" di noti personaggi della cultura, della televisione e della politica italiana. Divertentissime sono le imitazioni di Umberto Eco, di Alberto Moravia, di Adriano Celentano, di Indro Montanelli.
In questo branetto Michele Serra prende in giro lo stile di Oriana Fallaci, in particolare la sua passionalità che si manifesta, dal punto di vista linguistico, attraverso una narrazione scarna fatta spesso di un lessico molto crudo e brutale, e di lunghe enumerazioni di aggettivi. Il romanzo a cui Serra si riferisce nel suo racconto è "Lettera a un bambino mai nato", libro di grande successo sul tema dell'aborto pubblicato da Oriana Fallaci nel 1975. Per questo il brano-parodia si intitola "Un pulcino mai nato"
Oriana Fallaci, Wikipedia pubblico dominio
"Signora, mi deve mezzo dollaro." Con i suoi occhi cisposi, i denti cariati, l'alito fetido, l'espressione idiota, la voce odiosa, il salumiere aspettava che gli pagassi la dozzina di uova. Aveva la classica faccia da porco, ma da porco vecchio, malato, guasto dentro. Il suo negozio era disgustoso. Fuori cadeva, lentissima, una pioggia lercia. Vomitai: una, due, tre, quattro volte.
Dentro le viscere sentivo esplodere la violenza, la meschinità, l'ignominia, la sporcizia, la volgarità, la viltà del mondo: l'orrore mi mordeva lo stomaco, me lo smangiava, me lo corrodeva. Mi accorsi che parlavo da sola, ma a voce altissima: gridando. Mi strappai i capelli, morsicai la borsetta, mi rotolai per terra, diedi fuoco a due scaffali, estrassi una rivoltella e sparai tre colpi in aria, suonai una tromba, feci la cacca, mi congiunsi spasmodicamente con un negro, mi tagliuzzai un piede con una lametta. Poi pagai il conto. Il salumiere mi fissò con la sua espressione ebete, laida, immonda, turpe, sconcia, triviale, ottusa, empia, cretina, ignorante, cafona, arrogante, offensiva. Io gli fissai le scarpe, veramente bruttissime, e gli allungai il suo schifoso, fottuto, atroce, insolente, blasfemo mezzo dollaro. Vomitai: una, due, tre, quattro volte.
"Signora, se viene l'ufficio di igiene passerò dei guai" disse il salumiere. Ma io non lo ascoltavo più: ero già fuori, sotto una pioggia putrida e appiccicosa, con la mia dozzina di uova. Mi doleva la ferita alla natica destra: due pallottole a Città del Messico. Mi bruciava anche la ferita alla natica sinistra. Già: dove, quando, come e perché, in quale vergognoso budello del mondo mi ero ferita alla natica sinistra? Per quanto mi sforzassi di ricordare (e il cervello mi doleva, urlava, impazziva, soffriva, smaniava, piangeva, pregava, guaiva, puzzava), ero certa di non avere mai subito ferite alla natica sinistra. Eppure mi bruciava.
"Signora, scusi, non si sieda sulla mia fiamma ossidrica: potrebbe farsi male." Così mi disse l'operaio che stava riparando una saracinesca, con la sua faccia criminale e la sua voce da scimmia violenta. Vomitai: una, due, tre, quattro volte.
Feci le scale di casa di corsa, mentre tutto l'orrore e l'ingiustizia del mondo mi dilaniavano il pancreas, le reni, i timpani, l'esofago, i talloni, i polpacci, le ascelle, il pomo di Adamo. Mi buttai dal quinto piano, urlai, piansi, mi fratturai, mi insultai, mi scotennai, mi ficcai un tacco in un occhio, mi estrassi gli intestini dal ventre e feci un nodo Savoia, mi denudai, torturai la portiera, disputai le semifinali in un torneo di ping-pong. Infine mi ricomposi ed entrai in casa: le uova si erano tutte rotte. Tranne un uovo. Uno, uno, uno solo, un uovo, un uovo, solo uno. Quell'uovo, proprio quell'uovo. Lui. Sì: si può ancora vivere, sperare, provare tenerezza, amore, bisogno di fede, sapienza, bellezza, intelligenza, speranza, giustizia, verità. Ancora guardare il tramonto. Ancora destarsi sereni. Ancora vivere. Ancora.