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Disperate housewives de Trastevere

Tre modelli di donna nell'antica Roma

17 febbraio 2008

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Giulia Grassi

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I materiali di Matdid sono scaricabili liberamente come supporto per lezioni di italiano. Ne è vietata la pubblicazione su carta o in formato digitale salvo autorizzazione.

(fonte: gli studi della prof.ssa Eva Cantarella)

Il ruolo della donna, nella Roma antica, era ben definito: moglie e madre. E il suo universo era quello, chiuso e privato, della casa. Lanifica, pia, pudica, frugi, casta, domiseda cioè impegnata nel tessere la lana, devota, pudica, frugale, casta e che sta a casa: queste le doti di una donna in un'iscrizione romana. Se ne possono aggiungere altre due - silenziosa e prolifica - ed ecco la perfetta matrona, sogno di ogni uomo dell'antichità (?). La moglie era completamente sottomessa al marito: i testi degli scrittori latini non lasciano dubbi in proposito, e nemmeno il diritto romano.


Scena di matrimonio (dextrarum iunctio - unione delle destre) su un altare funerario, I secolo d.C (Roma, Museo Nazionale Romano)

Dovere principale della donna era procreare, per il bene dello Stato. Molti mariti, nel loro testamento, lasciavano una dote alla moglie solo a una condizione: una volta rimasta vedova doveva risposarsi e fare altri figli con il nuovo marito.

Preservare le doti delle donne è nell'interesse pubblico. È davvero necessario che le donne continuino ad avere una dote per procreare e dare figli alla città", scrive il giurista Pomponio (Digesto).

Una donna prolifica era un bene pubblico, cosicché poteva succedere che "se un marito romano aveva un numero sufficiente di figli da allevare, un altro, che non aveva figli, poteva convincerlo a lasciargli sua moglie, consegnandogliela a tutti gli effetti, o solo per una stagione" (Plutarco).

E poteva succedere che il marito "cedeva" sua moglie anche se era incinta, come era successo a Marzia, ceduta dal marito, il celebre Catone Uticense, a Quinto Ortensio Ortalo, che scrive: "Secondo la legge di natura è una cosa giusta e onorevole per lo Stato che una donna nel fiore della sua giovinezza e bellezza non debba né spegnere il suo potere riproduttivo rimanendo inattiva né generare più figli del necessario, gravando e impoverendo un marito che non ne vuole".

A ognuno dei suoi eventuali mariti la donna doveva essere devota e fedele.

Modello 1: Porzia

Gli scrittori latini citano come esempio di devozione assoluta la matrona Porzia, figlia di Catone Uticense. Moglie di Marco Giunio Bruto, uno degli assassini di Giulio Cesare, alla notizia della morte del marito (42 a.C.) Porzia si uccide, ingoiando dei carboni ardenti: "Quando venisti a sapere che il tuo sposo Bruto era stato sconfitto e ucciso a Philippi, poiché non ti si dava un pugnale, non esitasti a inghiottire castissimi carboni ardenti, imitando con il tuo coraggio femminile la morte virile di tuo padre" (Valerio Massimo).

I carboni ingoiati da Porzia sono "castissimi", perché la castità era stata la dote principale di questa donna coraggiosa. E la castità era una delle virtù fondamentali: la legge riconosceva al marito il diritto di punire il tradimento della moglie con la morte.

Modello 2: Lucrezia


TIZIANO, Tarquinio e Lucrezia, 1571, Wikipedia, pubblico dominio

Esempio assoluto in questo campo è Lucrezia. Suo marito Tarquinio Collatino e alcuni giovani nobili, mentre mangiavano e bevevano abbondantemente, avevano fatto una scommessa: chi aveva la moglie più virtuosa? Collatino aveva condotto gli altri a casa sua, di notte, e tutti avevano potuto vedere che la sua sposa era in casa e stava tessendo la lana (domiseda e lanifica).

Nel gruppo di mariti ubriachi c'era anche Sesto Tarquinio (figlio di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma), che subito aveva perso la testa per Lucrezia. Di nascosto Sesto era andato da lei, per supplicarla di diventare la sua amante, ma Lucrezia lo aveva respinto. Allora l'aveva ricattata: "se non cedi, ti ucciderò, poi metterò accanto al tuo corpo quello di uno schiavo, nudo, e tutti penseranno che sei stata uccisa in vergognoso adulterio".

A questo punto Lucrezia aveva ceduto, per paura non della morte ma del disonore. Quando Sesto se ne era andato via, aveva chiamato il padre e il marito, gli aveva raccontato tutto e si era uccisa "perché in futuro, seguendo il mio esempio, nessuna donna viva disonorata (impudica)" (Tito Livio).

Modello 3: Tacita Muta

Infine, altra dote indispensabile era il silenzio, che "reca grazia alla donna" (Sofocle). La parola, che esprime e comunica il pensiero, era considerata prerogativa degli uomini e le donne avevano il dovere di tacere, perché erano incapaci di fare buon uso del linguaggio, proprio in quanto donne. In questo senso, è chiarificatrice la storia di Tacita Muta, dea del silenzio.

In origine Tacita era una ninfa e si chiamava Lala (dal verbo greco laleo, "parlare"). Parlava, ma troppo, e a sproposito. Era stato Giove a renderla muta: Lala, infatti, aveva raccontato a sua sorella Giuturna che il dio la amava, rendendo inutili così le strategie che lui pensava di attuare per conquistarla. Giove, arrabbiato, le aveva strappato la lingua. Non bastasse, la povera Lala-Tacita Muta era stata violentata dal dio Mercurio, che doveva accompagnarla nel regno dei morti; e aveva partorito due gemelli, i Lari compitales, che proteggevano i confini e quindi la città.

Non c'è che dire: casalinghe disperate a dir poco...


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