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Docere delectando

Didattica nella Roma antica

30 settembre 2007

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Giulia Grassi

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Nella Roma antica non esisteva niente di paragonabile a un sistema scolastico pubblico e con insegnanti stipendiati dallo Stato.

Gli analfabeti erano numerosi e poche persone erano in grado di leggere e capire scritti complessi.

Eppure gran parte della popolazione doveva saper scrivere e leggere testi semplici, con formule standard: lo testimoniano il gran numero di iscrizioni sui monumenti, i messaggi di propaganda elettorale dipinti sui muri, le scritte commerciali (ad esempio quelle col costo dei cibi e del vino nelle osterie o quelle con le tariffe delle prostitute nei lupanari), gli annunci di spettacoli teatrali o di giochi gladiatori, le iscrizioni funerarie.

Lo testimoniano anche i numerosi graffiti anonimi incisi sulle pareti di molti edifici, con frasi d'amore, insulti, testi osceni, minacce, imprecazioni: ne sono esempio i graffiti trovati nel Paedagogium del Palatino e quelli, naturalmente di contenuto osceno, sugli affreschi di una latrina del II-III secolo scoperta casualmente a Via Garibaldi, a Roma, nel 1963.

E, infine, lo prova la diffusione degli acta diurna, pubblicazioni giornaliere nate per volere di Giulio Cesare. Sono gli antenati dei moderni quotidiani: riportavano sia informazioni sulla vita pubblica (discorsi dell'imperatore, delibere politiche, processi importanti) sia notizie di cronaca, come le vittorie nei giochi o i pettegolezzi sui personaggi più in vista della città (le fabulae et rumores di Cicerone... il gossip insomma).

Dove si imparava a leggere e a scrivere?

I figli degli aristocratici avevano un precettore, un maestro privato, preferibilmente greco. Ma tutti gli altri?

Nello Stato romano non c'era una organizzazione scolastica "istituzionalizzata" e l'istruzione era per lo più affidata ai privati, in particolare per quel che riguarda l'istruzione di base.

L'educazione scolastica di base, tra i 7 e i 15 anni, era detta ludus litterarius (Plauto): si imparava a leggere, scrivere e contare, e poco di più.

La qualità era bassa. Non esisteva la figura del maestro di professione e chiunque poteva improvvisarsi magister e tenere lezioni nella propria casa, in locali di fortuna o, spesso, sotto i portici, nella confusione delle affollate strade cittadine.

La paga? Era bassissima: Giovenale scrive che il vincitore dei giochi del circo poteva guadagnare in un giorno una somma pari allo stipendio annuale di un insegnante.

Quanto ai metodi di insegnamento, altro che "docere delectando"!

Secondo Quintiliano, le lezioni, che si tenevano tutti i giorni dall'alba a mezzogiorno, erano ripetitive e noiosissime. Mantenere la disciplina e l'attenzione degli studenti non era semplice, cosicché molti docenti usavano la frusta (sferza) [1].

I pochi che proseguivano gli studi si iscrivevano alle scuole di grammatica e di retorica, aperte a Roma da privati fin dal II secolo a.C.

Il grammaticus era una specie di insegnante di letteratura, che aveva il compito di insegnare "perizia nel parlare corretto e lettura con commento dei poeti" (Quintiliano). Il rethor, a conclusione del percorso educativo, insegnava a pochissimi privilegiati i segreti dell'eloquenza, l'arte del parlare.

Lo Stato romano era più presente proprio in questa fase, probabilmente perché una buona formazione culturale veniva considerata importante per il ceto dirigente e per i funzionari dell'amministrazione pubblica. La prima scuola di retorica finanziata dal fisco imperiale è stata aperta da Vespasiano, che affida questo compito al retore Marco Fabio Quintiliano. Quintiliano è quindi il primo professore statale, con stipendio fisso.

E che stipendio! 100.000 sesterzi all'anno! Una bella cifra, visto che un semplice maestro tirava avanti con 2.000 sesterzi (per avere un tenore di vita dignitoso - con qualche schiavo, sennò non era considerata una vita civile - ci volevano 20.000 sesterzi all'anno, dice Giovenale).

Ma Quintiliano era un privilegiato... E neanche gli insegnanti di oggi, almeno in Italia, se la passano troppo meglio dei loro colleghi di duemila anni fa.

 

Nota 1 : Il poeta Orazio (Epistole, 2,1, 70-71) ricorda che il suo manesco maestro Orbilio gli aveva insegnato i poemi di Livio a suon di botte ("...nemini quae plagosum mihi parvo Orbiluim dictare" = ... che a me fanciullo dettava, me ne ricordo bene, Orbilio, a suon di sferza).

E Marziale (Epigrammi, X,62) ci informa che "la sferza dello Scita orlata di orride strisce di cuoio ... e le crudeli bacchette" (cirrata loris horridis Scythae pellis,... ferulaeque tristes) erano "lo scettro degli insegnanti" (sceptra paedagogorum).



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