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Primi documenti in volgare

Placiti cassinesi, indovinello veronese e iscrizione di San Clemente

1 gennaio 2024

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Roberto Tartaglione

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Ritratto di Jean Miélot, segretario, copista e traduttore del duca Filippo III di Borgogna, Wikipedia, pubblico dominio

La lingua volgare, quella parlata per tutto il lungo periodo di transizione fra latino e italiano, è una lingua sostanzialmente orale: possiamo intuire più o meno quali fossero le sue tendenze generali, ma - considerando poi che ogni realtà locale aveva il suo volgare e che nel corso dei secoli ogni volgare si modificava - è impossibile darne un quadro davvero sistematico.

Certo è che verso gli ultimi secoli del primo millennio qualcuno prova a scrivere in questa lingua che non è più latino e non è ancora italiano. Si tratta all'inizio di testi un po' particolari:

  • a volte sono documenti commerciali: se bisogna vendere dei prodotti e tenere il conto di quanto si spende, firmare atti o cessioni, bisogna che il testo sia in una lingua comprensibile a tutti.

  • a volte si tratta di formule giuridiche: se c'è una testimonianza in tribunale e chi testimonia non sa parlare latino bisogna che le cose che si dicono o si giurano siano riportate fedelmente.

  • in altri casi si tratta di giochini, indovinelli popolari, prove di penna o scritte riempitive sullo spazio bianco a margine di una pagina scritta in latino.

  • ci sono anche scritte più o meno irriverti o oscene, tipo quelle che anche oggi si trovano sui muri, lungo le strade.

  • a volte poi, perché no, ci sono versi scritti da chissà chi e dedicati a un amore o magari a un santo a cui si è devoti

Ma si tratta di piccole cose. E, da sempre, c'è in Italia come una gara per identificare in questo o quello scritto il PRIMO documento in volgare italiano. Una gara che non avrà mai vincitori anche perché la lingua cambia così lentamente che sarà difficile stabilire fra questi primi documenti quale sia da considerare volgare e quale tardo-latino.

Noi quindi rispettiamo la vecchia tradizione culturale e scolastica italiana riportando i tre che sono considerati i primi testi volgari: sappiamo che certamente c'è stato qualcosa prima, ma riportiamo questi perché sono quelli che per tradizione sono "riconosciuti" e noti a molti.


Il Placito di Capua



Siamo nell'anno 960. Aligerno, abate del Monastero Benedettino di Montecassino, vuole tornare in possesso di alcune terre che i benedettini avevano abbondonato alcuni decenni prima a causa delle invasioni dei Saraceni e che ora erano occupate da un ricco proprietario terriero di nome Rodelgrimo. Per dimostrare il diritto di proprietà del Monastero, Aligerno porta dei testimoni che dichiarano di sapere che quelle terre erano state possedute in passato per trent'anni dal Monastero. Rodelgrimo dichiara invece di aver ricevuto quelle terre in eredità dal padre, ma non può dimostrarne il diritto di proprietà. Perde la causa e le terre tornano ai monaci.

La particolarità del documento che registra questa sentenza è che la testimonianza a favore del Monastero di Montecassino è trascritta non in latino ma nella "lingua del popolo". Il testo della dichiarazione, considerato il primo o uno dei primi documenti in lingua italiana, è:


SAO KO KELLE TERRE PER KELLE FINI QUE KI KONTENE TRENTA ANNI LE POSSETTE PARTE SANCTI BENEDICTI


Cioè: "so che quelle terre per quei confini che qui sono contenuti (i testimoni indicano i confini del terreno) per trenta anni le possedette la parte di San Benedetto (il Monastero di Montecassino)".

La testimonianza non è una produzione autonoma dei singoli testimoni, ma è una formulazione di tipo giuridico preparata dal giudice Arechisi che vuole che ciascuno dei testimoni la ripeta. La particolarità è che la formula, già impiegata in latino in altre occasioni, è stavolta nella lingua "rustica" la lingua parlata dal popolo. Perché il giudice abbia avuto questa idea è cosa difficile a dirsi: forse i testimoni non conoscevano il latino; ma forse il giudice ha preferito la lingua volgare perché il documento fosse comprensibile a tutti e perciò inattaccabile.

Il fatto importante è che non si tratta di un testo scritto in "latino corrotto" da una persona incapace di esprimersi nella lingua ufficiale, ma di una formula consapevolmente redatta in una lingua riconosciuta come "diversa".


L'indovinello veronese



Questo testo è della fine dell' VIII secolo o forse degli inizi del IX. Quindi precedente rispetto al Placito di Capua. Anzi, dal punto di vista cronologico sarebbe il primo documento in lingua neolatina non solo per quanto riguarda l'area italica, ma in generale per tutta l'area dell'ex impero romano. Tuttavia non tutti sono d'accordo a considerare questo testo "non-latino": per parlare di una lingua nuova infatti bisogna avere la consapevolezza di utilizzare un determinato idioma. L'indovinello veronese ha certo qualche caratteristica di volgare (in particolare la perdita delle consonanti finali di parola), ma gli elementi latini sono ancora molto presenti e quindi è forse più corretto considerarlo "tardo-latino"

Vediamo il testo:

SE PAREBA BOVES ALBA PRATALIA ARABA ET ALBO VERSORIO TENEBA ET NEGRO SEMEN SEMINABA

Cioè: "Aveva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati, teneva un aratro bianco e seminava un seme nero". L'indovinello dovrebbe alludere alla scrittura: i buoi sono le dita della mano, i prati bianchi le pagine su cui si scrive, il bianco aratro la penna d'oca con cui si scrive e il seme nero l'inchiostro. Il testo è su una pagina scritta in latino e qualcuno ha avanzato l'ipotesi che si tratti di una "prova di penna": esercizi di scrittura per provare la qualità degli strumenti a disposizione (la penna, l'inchiostro) o per "scaldare i muscoli" prima di iniziare a scrivere. Del resto il costo della pergamena era altissimo e comunque lasciare dei vuoti era davvero uno spreco.


L'iscrizione di San Clemente

Nella Basilica di San Clemente a Roma c'è un affresco dell'XI secolo che narra un miracolo del santo. La storia è raccontata con la tecnica dei fumetti moderni dove i vari personaggi sono affiancati da scritte che rappresentano quanto loro stanno dicendo.

In breve la storia è questa: Sisinnio ordina ai suoi servi (Gosmario, Albertello e Carvoncello) di trascinare San Clemente in catene fino alla prigione. Ma il santo con un miracolo si libera e i servi non capiscono che stanno tirando in prigione non Clemente, ma una pesantissima colonna di marmo. I servi non ce la fanno e Sisinnio li rimprovera. Clemente, tutto tranquillo da una parte guarda la scena.

Vicino ai personaggi queste frasi:


  • SISINIUM: "Fili de le pute, traite" (figli di puttana, tirate!)

  • GOSMARIUS: "Albertel, trai!" (Albertel, tira!)

  • ALBERTELLUS: "Falite dereto co lo palo, Carvoncelle!" (mettiti dietro di lui col palo, Carvoncello!)

  • SANCTUS CLEMENS: "Duritiam cordis vestri, saxa traere meruistis" (per la durezza del vostro cuore meritate di trascinare pietre!)

In questo caso le parole di Sisinnio, Gosmario e Albertello sono consapevolmente in volgare: non a caso infatti la loro lingua popolare (nella prima frase anche "troppo" espressiva!) si oppone a quello che dice San Clemente (che parla invece in latino anche nelle sue parole ci sono degli erroretti di grammatica che ci fanno capire che il pittore non era un grande conoscitore di questa lingua).


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